mercoledì 2 febbraio 2011

Nepal... frammenti

Ottobre 2009. Obiettivo il ROLWALING: una regione esplorata per la prima volta da una spedizione occidentale con Eric Shipton nel 1951, durante la sua ricognizione all'Everest. Il termine Rolwaling in lingua locale significa "il solco scavato dall'aratro", e se ne capisce subito la ragione poiché in realtà esso identifica una profonda gola pressoché disabitata. La valle è anche ritenuta un "beyul" o "valle nascosta", proprio per la sua posizione; essa comunica, tramite uno dei passi himalayani più alti e pericolosi, con la regione del Khumbu e da qui con la via all'Everest. Il programma prevede inoltre la salita al Parchamo, una montagna di 6272 metri.

Un ronzio mi distoglie dai neri pensieri che da due giorni a questa parte mi tengono una non facile compagnia. Appena percettibile. Il rumore aumenta ma è ancora troppo vago per decifrarne l'origine. Voci concitate giungono dall'esterno ... Ruggero! ... Ruggero! Esco. Sollevo il capo. È lassù, ancora alto nel cielo cristallino, volteggia con giri concentrici sopra il campo, sempre più piccoli, indeciso, come a cercare qualcosa. Accade in un attimo. La commozione sale agli occhi e prorompe inarrestabile. Grosse lacrime mi rigano le guance. Sono stupito e come soffocato dalla mia improvvisa fragilità emotiva.

Quota 4200 metri. Regione Everest. Na Gaon. Modesto ed antico villaggio, adagiato su di una piccola piana e stretto fra alte pareti di roccia incombenti, ai limiti del ghiacciaio. Un gompa, piccolo monastero buddhista, e poche case di pastori. In pietra. Ed un lodge a dare rifugio e riparo alle rare carovane di passaggio nella buona stagione. Numerosi muretti a secco dalla forma irregolare, tirati su con pazienza e millenaria fatica, delimitano piccoli spazi ove pascolano le pecore e gli yak. Assai più numerosi degli umani stessi. Prime giornate di ottobre. Poi, con i primi geli e le prime abbondanti nevicate, saranno costretti a scendere a quote più basse per trascorrervi i mesi più freddi ed impietosi. Una vita da seminomadi, insomma. Da sempre. A tre giornate da qui il Trashi Labtsa, “uno dei passi himalayani più duri e pericolosi”, per dirla con le parole di Sir Edmund Hillary. Dal passo si stacca una cresta, direzione nord nord-ovest. Conduce al Parchamo, vetta affascinante di 6272 metri: non tecnicamente difficile, si eleva sopra il ghiacciaio crepacciato del passo con pendenze che non superano i 50 e 60 gradi. Da lassù è possibile ammirare in tutta la sua possanza l'Everest, proprio di fronte, e a seguire il Nuptse e il Lhotse, degni comprimari di questa meraviglia della natura. Più lontano, appena defilato, a neppure venti chilometri di distanza in linea d'aria, un altro gigante, il Makalu. Un sogno.

48 ore prima. Un lieve dolore al fianco. Di nessuna importanza. Ci aspettava una giornata tranquilla. Solo tre ore di cammino su un dislivello di 400 metri per raggiungere Na Gaon, ultimo avamposto umano. Due giorni di sosta per permettere al fisico di acclimatarsi con brevi e rapide escursioni a quote più elevate, prima del grande balzo oltre i 5000. Il dolore non accennava a diminuire costringendomi a rallentare il passo, non poco. Improvviso e violento il suo acutizzarsi. In ginocchio, ai bordi del sentiero, cerco di non cedere al dolore insopportabile mentre lunghi e ripetuti conati di vomito mi lasciano senza forze e senza fiato. Tento di rialzarmi imponendomi di proseguire. Devo. Pochi dolorosi metri percorsi con grande fatica ed ancora il vomito. Incessante. I compagni mi guardano increduli e silenziosi. Alcuni rimangono con me, gli altri proseguono fino al campo, per informare Galge, guida Sherpa e Sirdar della spedizione. Rimango a terra, in attesa. Raggomitolato. Non oso muovermi. Folate di nebbia grigia, scura e gelida scendono dalla montagna di quando in quando e spazzano via il timido tepore del sole. Attendiamo.

Galge sbuca, con la seconda guida Nima, da una curva nella parte più alta del sentiero. Si avvicina. Mi apostrofa con un “How many kilos do you weigh? Quanto pesi?”... Il motivo della richiesta mi giunge strano. Lo vedo cavar fuori una coperta dallo zaino in silenzio; lo seguo mentre annoda fra di loro i quattro capi fino a formare una fascia. Credo di capire! Mi caricherà sulle spalle, come sono abituati a fare da sempre con le pesanti sacche di noi occidentali, il cibo, il combustibile, le tende, il materiale della spedizione e così via. Mi fa scivolare dentro a quel sedile improvvisato, mi invita ad appoggiarmi alla sua schiena, aggiustandosi la fascia sulla fronte ... e un istante dopo mi trovo sollevato su di lui. Ora tutto il peso del mio corpo, 75 chili, gli grava sulle vertebre del collo. Una tempesta di sensazioni mi assale. Con le braccia sul suo petto per tenermi in equilibrio, ne percepisco i battiti possenti e ritmati del cuore. Sta semplicemente portando un carico superiore al suo peso. E lo fa anche con una certa eleganza: poggia i piedi sul terreno in ripida salita, a volte esposto e reso più disagevole da alcuni salti che supera con grande sicurezza. Poi Nima gli dà il cambio. Una staffetta a due.

In una stanzetta del piccolo lodge, Javier, un giovane medico di una spedizione spagnola, mi presta le prime cure con una iniezione di un potente analgesico, la somministrazione di un antiemetico per bloccare il vomito ed un antibiotico, visto che ho quasi 38 gradi di febbre. Mi sembra di stare in paradiso. Riesco a non sentire il dolore. Sono proprio fortunato. Posso riprendere fiato. E posso riposare, avvolto nel sacco a pelo e nelle coperte tra quattro muri in pietra e con un tetto in legno sulla testa. Digiuno pressoché totale.

Due giornate di attesa. Cerco di scacciare i mille cattivi pensieri ... Non arriva. Perché? Certo, il tempo non è clemente. Attendo. Non oso pensare di dover restare anche un'altra giornata qui, completamente isolato, dato che il gruppo giustamente proseguirà come da programma. Non avrei possibilità alcuna di comunicare. Il gestore del lodge parla solo nepalese. A che servirebbe il mio pur ottimo inglese? Solo, seduto nella stanza dove si consumano i pasti, attendo.

Otto di mattina. Si apre una finestra di bel tempo ... forse ...
... Ruggero ... Ruggero! Eccolo finalmente volteggiare lassù... l'elicottero ... ultimi momenti frenetici. Lo vedo abbassarsi, atterrare in un piccolo recinto per gli yak a un centinaio di metri di distanza. Le lacrime. I due kitchen boys, gli aiuto cucinieri, mi prendono sotto braccio, e quasi di peso mi portano fin sotto l'elicottero. Le pale. Dobbiamo abbassarci. Lo sportello si apre. Una mano mi aiuta a salire. Mi volto e mi vedo arrivare un grande CIAO accompagnato da un sorriso grande grande. Il saluto più amichevole che abbia mai ricevuto. L'ultima immagine di quel mondo. Il motore urla tutta la sua potenza. Il grande uccello meccanico si libra lentamente nel cielo circondato da giganti di roccia e ghiaccio.

Il resto non ha più storia. Il volo fino a Kathmandu. Il ricovero nella clinica privata americana. La diagnosi. Calcolosi renale. Il ritorno a casa. Sei dei miei compagni riusciranno a salire la vetta del Parchamo ... seimiladuecentosettantadue metri di sogno! 
Lagyelo”
gli dei sono stati clementi”
NA GAON: il gompa, attualmente in disuso, necessita di un intervento di restauro
NA GAON: il campo

NA GAON: il lodge





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