lunedì 4 giugno 2012

Frammenti d'Everest

Frammenti d'Everest
29 maggio 1953. Ore 11:30. Il neozelandese Edmund Hillary ed il nepalese Tenzing Norgay si scambiano una stretta di mano, mentre “una gioia immensa si impadronisce di loro”, sulla cima più alta della terra: 8848 metri. Per i Tibetani è il Chomolungma, “Altissima Dea”. Per i Nepalesi il Sagarmatha, “Dea Madre del Mondo”. Per noi occidentali l'Everest, dal nome del colonnello George Everest, il fondatore dell'Ufficio trigonometrico e geodetico della allora colonia britannica. Per tutti l'archetipo, la forma assoluta, che George Mallory ed Andrew Irvine osarono violare nel 1924 nel loro tentativo di raggiungerne la cima. Allora gli dei furono spietati. Concedettero loro di arrivare fino a 8450 metri dove furono visti per l'ultima volta prima di sparire inghiottiti dalle nuvole. Per essere consegnati per sempre alla Leggenda. Ed era stato ancora Mallory che in una delle numerose conferenze da lui tenute sull'argomento, ad uno che gli aveva chiesto perché quell'insistenza in quella inutile pazzia, egli aveva risposto con le famose parole: “Because it is there!”. “Perché è là!” La foto di vetta che ritrae un Tenzing con il passamontagna, occhiali e maschera per l'ossigeno ed il braccio destro che tiene la piccozza alta verso il cielo con le bandierine delle Nazioni Unite, della Gran Bretagna, del Nepal e dell'India, fa il giro del mondo. Un grande sogno si è avverato! La notizia giunge a Londra proprio a ridosso della cerimonia d'incoronazione della Regina Elisabetta II, il 2 giugno, e sono giornate di grandi festeggiamenti per i sudditi del Regno Unito.




  L'Everest, 8848 m, dalla vetta del Parchamo,6273 m. In primo piano la cresta del Nuptse.

Maggio 2012. Quest'anno, il 18 di maggio ha visto la prima spedizione raggiungere la vetta, con notevole ritardo rispetto all'anno precedente, il 5 maggio. Il tempo è stato poco clemente con poche e brevi finestre di bel tempo, costringendo così le numerose spedizioni dislocate nei vari campi alti ad approfittare delle brevi pause favorevoli, con il risultato di causare pericolosi affollamenti. Si sono viste cose incredibili. Gente che alle 14:30, in pieno pomeriggio, si trovava ancora diretta verso la cima, senza alcun rispetto per il cosiddetto “turnaround time”, le ore undici, il limite temporale cioè per l'arrivo in vetta da non oltrepassare perchè la discesa al buio rischia di diventare terribilmente pericolosa. Del resto, la tendenza negli ultimi anni non è certo confortante e foriera di numerosi incidenti mortali. A nessuno sfugge il disastro del maggio 1996, uno dei peggiori nella storia alpinistica della grande montagna, quando durante un weekend perirono otto persone, sorprese da una improvvisa bufera di neve. Più di 220 alpinisti hanno perso la vita nel tentativo di salita o durante la discesa dal lontano 1953. Alcune concause si sono accentuate. L'affollamento innanzitutto. Il 18 maggio di quest'anno, un interminabile “serpente umano” di seicento aspiranti salitori che stanno attraversando la parete sud del Lhotse, induce Ralf Dujimovitz, a fermarsi al Colle Sud e tornare indietro. Della sua rinuncia ci ha lasciato una testimonianza fotografica eloquente. Il sensazionalismo dilagante si trasforma in un insano desiderio di rompere i vecchi record o di inventarne di nuovi per darli poi in pasto ai media. La competitività in aumento fra scalatori e la mancanza di coordinamento fra le varie spedizioni e cordate sono fonte di potenziali occasioni di pericolo. Che dire delle lunghe code che costringono ad una sosta forzata per superare i punti più critici, in particolare nella “zona della morte” sopra gli ottomila metri? Rimanere senza l'ossigeno in bombole, sprecato nella lunga attesa, porta quasi certamente alla morte per sfinimento o per l'insorgere di gravissimi edemi polmonari e cerebrali. Se poi vi aggiungiamo il proliferare delle spedizioni commerciali in grado di “portare su” (il termine portare qui è perfettamente adeguato), alpinisti improvvisati dalla poca esperienza e modeste capacità, motivati solo da una foto di vetta da mostrare agli amici, il cerchio si chiude. Qualche dato da parte di alcune fonti ufficiali locali può dare la dimensione del fenomeno. Domenica 20 maggio 2012 ha visto ben 42 scalatori in vetta ed un triste bilancio di cinque morti fino a quella data nella presente stagione. Secondo Ang Tshering Sherpa, past president della Nepal Mountain Association, il Club Alpino Nepalese, vanno stabilite nuove e più severe norme nel rilascio dei vari permessi, più che ridurre in modo generalizzato il numero degli scalatori.
Il sempre maggior numero di morti, dieci quest'anno, nel tentativo di “conquistare” l'Everest investe la comunità alpinistica internazionale sul mai risolto tema del comportamento etico responsabile da tenere in montagna. La cima continua ad essere un valore assoluto, una specie di totem al quale sacrificare la vita di alpinisti in difficoltà, lasciati senza soccorso, a volte ancora legati all'unica corda fissa lunga quasi dieci kilometri che porta alla vetta. È possibile tirare diritto e far tacere la propria coscienza per soddisfare una assurda ambizione? Pure il 25 maggio una nota d'agenzia riporta che Nadav Ben-Yehuda, israeliano, per soccorrere un alpinista americano di origine turca, Aydin Irmak, rinuncia a salire. La sua azione ha assunto un valore morale ancora più intenso se pensiamo alle tensioni politiche esistenti tra i due paesi!

Fonte/ Source: Nepal Mountain News, Kathmandu