Frammenti d'Everest
29 maggio
1953. Ore
11:30. Il neozelandese Edmund Hillary
ed il nepalese Tenzing Norgay
si scambiano una stretta di mano, mentre “una
gioia immensa si impadronisce di loro”,
sulla cima più alta della terra: 8848 metri. Per i Tibetani è il
Chomolungma, “Altissima
Dea”.
Per i Nepalesi il Sagarmatha, “Dea
Madre del Mondo”.
Per noi occidentali l'Everest, dal nome del colonnello George
Everest, il fondatore dell'Ufficio trigonometrico e geodetico della
allora colonia britannica. Per tutti l'archetipo, la forma assoluta,
che
George
Mallory
ed Andrew
Irvine
osarono violare nel 1924 nel loro tentativo di raggiungerne la cima.
Allora gli dei furono spietati. Concedettero loro di arrivare fino a
8450 metri dove furono visti per l'ultima volta prima di sparire
inghiottiti dalle nuvole. Per essere consegnati per sempre alla
Leggenda. Ed era stato ancora Mallory che in una delle numerose
conferenze da lui tenute sull'argomento, ad uno che gli aveva chiesto
perché quell'insistenza in quella inutile pazzia, egli aveva
risposto con le famose parole: “Because
it is there!”.
“Perché è là!” La foto di vetta che ritrae un Tenzing con il
passamontagna, occhiali e maschera per l'ossigeno ed il braccio
destro che tiene la piccozza alta verso il cielo con le bandierine
delle Nazioni Unite, della Gran Bretagna, del Nepal e dell'India, fa
il giro del mondo. Un grande sogno si è avverato! La notizia giunge
a Londra proprio a ridosso della cerimonia d'incoronazione della
Regina Elisabetta II, il 2 giugno, e sono giornate di grandi
festeggiamenti per i sudditi del Regno Unito.
L'Everest, 8848 m, dalla vetta del Parchamo,6273 m. In primo piano la cresta del Nuptse.
Maggio
2012.
Quest'anno, il 18 di maggio ha visto la prima spedizione raggiungere
la vetta, con notevole ritardo rispetto all'anno precedente, il 5
maggio. Il tempo è stato poco clemente con poche e brevi finestre di
bel tempo, costringendo così le numerose spedizioni dislocate nei
vari campi alti ad approfittare delle brevi pause favorevoli, con il
risultato di causare pericolosi affollamenti. Si sono viste cose
incredibili. Gente che alle 14:30, in pieno pomeriggio, si trovava
ancora diretta verso la cima, senza alcun rispetto per il cosiddetto
“turnaround
time”,
le ore undici, il limite temporale cioè per l'arrivo in vetta da non
oltrepassare perchè la discesa al buio rischia di diventare
terribilmente pericolosa. Del resto, la tendenza negli ultimi anni
non è certo confortante e foriera di numerosi incidenti mortali. A
nessuno sfugge il disastro del maggio 1996, uno dei peggiori nella
storia alpinistica della grande montagna, quando durante un weekend
perirono otto persone, sorprese da una improvvisa bufera di neve. Più
di 220 alpinisti hanno perso la vita nel tentativo di salita o
durante la discesa dal lontano 1953. Alcune concause si sono
accentuate. L'affollamento innanzitutto. Il 18 maggio di quest'anno,
un interminabile “serpente
umano”
di seicento aspiranti salitori che stanno attraversando la parete sud
del Lhotse, induce Ralf
Dujimovitz,
a fermarsi al Colle Sud e tornare indietro. Della sua rinuncia ci ha
lasciato una testimonianza fotografica eloquente. Il sensazionalismo
dilagante si trasforma in un insano desiderio di rompere i vecchi
record o di inventarne di nuovi per darli poi in pasto ai media. La
competitività in aumento fra scalatori e la mancanza di
coordinamento fra le varie spedizioni e cordate sono fonte di
potenziali occasioni di pericolo. Che dire delle lunghe code che
costringono ad una sosta forzata per superare i punti più critici,
in particolare nella “zona
della morte”
sopra gli ottomila metri? Rimanere senza l'ossigeno in bombole,
sprecato nella lunga attesa, porta quasi certamente alla morte per
sfinimento o per l'insorgere di gravissimi edemi polmonari e
cerebrali. Se poi vi aggiungiamo il proliferare delle spedizioni
commerciali in grado di “portare
su”
(il termine portare qui è perfettamente adeguato), alpinisti
improvvisati dalla poca esperienza e modeste capacità, motivati solo
da una foto di vetta da mostrare agli amici, il cerchio si chiude.
Qualche dato da parte di alcune fonti ufficiali locali può dare la
dimensione del fenomeno. Domenica 20 maggio 2012 ha visto ben 42
scalatori in vetta ed un triste bilancio di cinque morti fino a
quella data nella presente stagione. Secondo Ang
Tshering Sherpa,
past president della Nepal
Mountain Association,
il Club Alpino Nepalese, vanno stabilite nuove e più severe norme
nel rilascio dei vari permessi, più che ridurre in modo
generalizzato il numero degli scalatori.
Il
sempre maggior numero di morti, dieci quest'anno, nel tentativo di
“conquistare”
l'Everest investe la comunità alpinistica internazionale sul mai
risolto tema del comportamento etico responsabile da tenere in
montagna. La cima continua ad essere un valore assoluto, una specie
di totem al quale sacrificare la vita di alpinisti in difficoltà,
lasciati senza soccorso, a volte ancora legati all'unica corda fissa
lunga quasi dieci kilometri che porta alla vetta. È possibile tirare
diritto e far tacere la propria coscienza per soddisfare una assurda
ambizione? Pure il 25 maggio una nota d'agenzia riporta che Nadav
Ben-Yehuda,
israeliano, per soccorrere un alpinista americano di origine turca,
Aydin
Irmak,
rinuncia a salire. La sua azione ha assunto un valore morale ancora
più intenso se pensiamo alle tensioni politiche esistenti tra i due
paesi!
Fonte/
Source:
Nepal
Mountain News, Kathmandu
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