mercoledì 26 gennaio 2011

Nepal ... portatori

Abbiamo con noi 28 portatori, 3 guide – Kipa, Kami e Kul Rai – un cuoco, un vice cuoco e due “kitchen boys”. Così vengono chiamati gli addetti tuttofare alla cucina. A loro spetta il compito di provvedere l'acqua per cucinare, servire a tavola, lavare piatti e pentole nonché portarci il primo the del mattino alle sei in punto quando siamo ancora nelle tende, come il the di metà mattinata e quello del pomeriggio. Trentacinque persone che accudiscono dieci “occidentali” nella loro diuturna fatica per tre settimane. Dimenticavo. Tre dei portatori sono donne! Già. I portatori! Imparerò ad apprezzarne la laboriosità e la forza celata in quei corpi leggeri in bilico su due gambe magre. Li ho visti portare carichi inverosimili, più di quaranta chili nella loro gerla o doko fatta di bambù intrecciato. Alcuni, come Amin, il mio porter, un ragazzo di diciannove anni, portano il carico sapientemente legato sulle spalle, senza gerla. Sono i primi a partire ogni giorno e gli ultimi ad arrivare ogni giorno e per tutti i giorni, domeniche incluse. Portano di tutto. Tende. Tavoli. Sedie. Cibo per molti giorni e il combustibile per cucinarlo. Materiale alpinistico. Cucina completa di tutto il necessario. Reggono il peso non sulle spalle come facciamo noi con i nostri piccoli e ridicoli zaini ma con una cinghia sulla fronte ... Il capo sopporta tutto il carico ... Le vertebre cervicali si comprimono fino quasi a schiacciarsi sotto l'enorme sforzo. Non indossano alcun abbigliamento tecnico. I calzari sono un semplice paio di ciabatte infradito che usano su ogni tipo di terreno, anche il più impervio. Sanno essere veloci su terreno pianeggiante o nella discesa e fanno frequenti e brevi soste sul togla – un bastone di bambù a forma di T sul quale appoggiano il carico e riprendono fiato. Sono discreti e quelle rare volte in cui rivolgono a noi qualche parola in inglese lo fanno con un “Sir” che rivela tutto il loro rispetto. Li ho visti scherzare e ridere e mostrare curiosità per certi nostri atteggiamenti. Alla fine del loro rapporto di lavoro altrettanto discretamente se ne vanno, felici del piccolo tesoro – trecento rupie, poco più di quattro euro al giorno, moltiplicate per tutti i giorni – guadagnato con tanta fatica e a volte mettendo a rischio la propria vita. 
 ( da "Ho visto le montagne toccare il cielo"
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Una sosta sul "togla", bastone di bambù a forma di T  sul quale appoggiano il carico e riposano.



 
Dobato Meadow. Campo a 3600 m, fra pareti di roccia e alti alberi di rododendro. I portatori, riuniti davanti ad un ricovero di fortuna, cercano un po' di riposo al termine della tappa odierna. Piove.

Campo base Makalu 4795 m - Le tre Sherpani ci lasciano. Hanno portato un carico di trenta chili ciascuna da Tumlingtar fino a qui per 140 km. Non vanno mai oltre il campo base delle spedizioni. Le ho spesso ammirate mentre camminavano seminascoste dai loro grossi carichi. 


 





Nepal ... elogio del the

Tashigaon. La pioggia continua incessante. Piacevole sorpresa! Mangeremo e pernotteremo nel lodge dove, appena arrivati, siamo subito gratificati con una tazza di the bollente. Solo chi si è trovato in situazioni simili in un rifugio di montagna, può apprezzare il conforto che questa preziosa bevanda riesce a dare. Toglie la sete. Ti riscalda dentro e poi via via il calore si diffonde a tutte le parti del corpo. Fa sparire la stanchezza di un lungo cammino al freddo e sotto il cattivo tempo. Rilassa. Dona nuove energie. Calma eventuali stimoli di fame. E, non ultimo, una calda tazza di the tra le mani intirizzite, scioglie le lingue e invita al dialogo e alla comunicazione anche con persone mai viste prima. 
( da "Ho visto le montagne toccare il cielo" ) 

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domenica 23 gennaio 2011

Nepal ... incontri 1

6 ottobre 2007 sabato – primo giorno: Tumlingtar-Khandbari. Si presenta la possibilità di prendere una jeep e di concentrare in questo modo le prime due tappe in un giorno solo. Ottima idea che ci vede tutti entusiasti! Il viaggio si rivela una avventura. La strada, o meglio una pista appena tracciata che con le prime piogge monsoniche diventa impraticabile, ci regala scossoni e polvere rossa appiccicosa. L'automezzo non è provvisto di vetri sul retro e quello anteriore presenta una grande rosa scheggiata a lato del guidatore. Un paio di volte siamo costretti a scendere causa fango, lo stesso fango che poi ci blocca definitivamente prima del previsto, facendo naufragare ogni velleità di proseguire ulteriormente. Alcune centinaia di metri di strada a piedi e attraversiamo le prime case di Khandbari, un villaggio di ampie dimensioni sparso su una zona collinare a poco più di mille metri di quota. E' sabato, giorno di mercato e un via vai di persone attira la nostra attenzione. Il paese si snoda su un lungo crinale con ampi panorami su entrambi i lati: vi sono alberghetti e piccoli negozi; luce e telefono sono presenti ed anche una scuola con un piccolo piazzale antistante dove ci fermiamo e poniamo il campo. Una breve esplorazione mi permette di visitare l'interno della “scuola”: un lungo e basso edificio ad un piano, pavimento in terra battuta, panchine per gli alunni, niente banchi, niente cattedra ma una lavagna sul muro. Le finestre sono solo dei fori neppure grandi dai quali penetra una luce fioca. Oggi non c'è lezione perché il sabato è per tutti una giornata di vacanza. Un ambiente scolastico ridotto all'essenziale e con la fantasia cerco di immaginare bimbetti seduti ed attenti mentre l'insegnante alla lavagna fa lezione con le misere risorse a disposizione. Scendendo di alcuni metri mi trovo fra campi terrazzati coltivati a cereali e una grande fontana che serve tutto il paese. Il pomeriggio inoltrato con la sua luce radente contribuisce a creare un paesaggio idilliaco e rasserenante. Ho voglia di scrivere le mie impressioni sulla mia Moleskine. Mi siedo sull'erba con quadernetto e matita tra le mani e comincio ... Sono accerchiato da una piccola folla di bambini. La curiosità li spinge ad avvicinarsi sempre di più fino ad accoccolarsi quasi sulle mie ginocchia. Qualcuno, più coraggioso, comincia a compitare le parole che sto scrivendo secondo l'alfabeto inglese, lingua che so essi studiano fin dal primo anno di scuola. E sono veramente bravi! Quanto e meglio di alcuni miei ex-studenti di quinta superiore. Non sbagliano una lettera! Per me è il segnale! Esce il docente che è ancora in me e ne approfitto per improvvisare una lezione di comunicazione partendo dall'inglese per passare poi all'italiano e al nepalese. Riusciamo a parlarci! Vengo a sapere molte cose di loro e delle loro famiglie e mi chiedono, vogliono il mio nome, di dove sono, la mia famiglia. Non sto più nella pelle. L'entusiasmo, la voglia di imparare e soprattutto la loro semplicità ed immediatezza mi coinvolgono emotivamente. Non è possibile. Li invito a scrivere i loro nomi sulla mia agenda e non si fanno certo ripetere l'invito due volte. “My name is Mina Devi Rai ... My name is Sujana Rai ... My name is Jeni Gurung ... My name is Sita Sherpa.”, e scopro che la seconda parte del loro nome indica la loro etnia di appartenenza: i Rai, i Gurung, gli Sherpa. Sto imparando a mia volta! Ad un certo punto si fa largo un maschietto. Quattro. Cinque. Sei anni? E mettendomi tra le mani un foglio di quaderno mi dice due parole soltanto: “ Makalu – yak ” e poi scappa. Guardo. Ammiro due disegni. Una montagna stilizzata, il Makalu appunto, ed uno yak ben particolareggiato nei suoi tratti. Lo yak fa parte integrante della loro cultura: è il loro mezzo di trasporto, non solo ma anche di sostentazione, visto che ne mangiano le carni, con il pelo tessono indumenti e ne usano lo sterco essiccato come combustibile! Mi alzo, lo cerco con lo sguardo ... sparito così come era apparso ...
( da "Ho visto le montagne toccare il cielo" )
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... li invito a scrivere i loro nomi sulla mia agenda ...

"... Makalu ... yak ... "

Khandbari - scolaretti

Khandbari - il cortiletto della scuola dove abbiamo posto il campo
 



Nepal ... incontri 2

Il posto tappa è a Khongma, leggermente scostato dal crinale su un modesto prato, a 3500 metri di quota. Accanto ad alcune piazzole per il campo traboccanti di fango si nota uno “sherpa-hotel”, modesta ma preziosa costruzione in pietra, dove è un vero piacere trovare un riparo e bere una o due tazze dell'immancabile the bollente. Ha ripreso a piovere. Il luogo diventa affollato perché oltre alla nostra presenza troviamo anche una spedizione austriaca, che di lì a qualche giorno ci causerà qualche problema. I portatori si riparano sotto una stretta tettoia o trovano rifugio in un buco adiacente all'edificio. Sorseggiando una calda zuppa ho il modo di soffermarmi sui particolari di questa tipica dimora sherpa.

Vi è un unico stanzone a forma rettangolare plurifunzionale. Una apertura funge da ingresso ed un'altra da finestra. Il pavimento è in terra battuta. Un angolo funge da dispensa e da zona dove la donna può svolgere le sue attività. Le uniche suppellettili sono addossate lungo le pareti e constano di una specie di tavolo e di alcuni ripiani di legno ricoperti da tappeti di lana con ricchi disegni colorati. È l'area dedicata al soggiorno e al riposo diurno e notturno. Alcuni armadi sono pieni zeppi di bibite. Predominano la birra e la coca-cola. In bella mostra vi sono anche biscotti e altri generi di approvvigionamento. Non mancano le sigarette. Si può tutto acquistare. Nei pressi della porta trova posto il focolare in una piccola buca di pietra. Non esiste canna fumaria o comignolo – un'altra analogia con le case dei Walser sulle nostre Alpi. Il fumo esce in parte dalle fessure del tetto. Tutta la stanza ha un colore grigiastro e l' odore stagnante del fumo è penetrante. All'inizio gli occhi lacrimano. Poi ci si fa l'abitudine. Sulla perpendicolare del focolare è appeso un graticcio di legno con carne cruda di yak stesa a strisce ad essiccare.

Ho l'occasione di parlare con la famiglia che ci sta offrendo ospitalità. Una coppia giovane con una bella bimbetta di pochi anni. La conversazione in inglese non è delle più facili, ma si riesce a comunicare. Lei presenta dei grandi occhi neri e la pelle scura. I suoi lineamenti tradiscono la sua origine tibetana. È la prima ad attirare la mia attenzione. Mi chiede della mia famiglia. È curiosa. Mi parla della sua. Vengo così a sapere che ha quattro figli di dodici, nove, sette e quattro anni. La più piccola con lei. Con la stagione fredda chiuderanno e scenderanno a quote più abitabili. Mi ha fatto ridere quando ha aggiunto, ridendo, che di figli non ne vuole più ... “finished” ... basta ... finito. Non vuole fare come la propria mamma che di figli ne ha fatti ben undici! Vuole sapere la mia età. Si complimenta con me...
( da "Ho visto le montagne toccare il cielo" )
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Khongma , il campo a 3500 m, e il modesto ma prezioso "sherpa-hotel"
... sulla perpendicolare del focolare è appeso un graticcio di legno con carne cruda di yak stesa a strisce ad essiccare ...

... "finished" ... basta ... finito ...

Nepal ... sanguisughe

Sheduwa. La partenza questa volta avviene sotto una pioggia battente. Un ombrello, in questi casi, si rivela come lo strumento più utile per ripararsi, trattandosi di tranquilli sentieri. La parte iniziale ci vede impegnati su di un crinale che sale dolcemente fra micro appezzamenti rubati alla foresta coltivati a riso. Giornata davvero terribile e memorabile per le sanguisughe. Abbondano. Impossibile fermarsi per una sosta. Saranno quattro ore di continuo camminare con gli occhi sempre puntati sugli scarponi, controllandoci a vicenda, togliendoci di dosso quelle che riusciamo a vedere. Ma è una battaglia persa in partenza. Tutti dobbiamo pagare il nostro piccolo tributo di sangue a questo poco simpatico animaletto. Maddalena forse più di tutti. Si muovono rapidissime sui nostri corpi alla ricerca del punto debole fra gli abiti per attaccarsi con la ventosa boccale alla pelle. E succhiare. Riescono a passare attraverso i calzettoni e in tale modo si apprestano al banchetto. Io me la cavo, si fa per dire, con il piede destro che sembra un campo di battaglia. A Tashigaon mi tolgo le scarpe, il calzino presenta una serie di grandi macchie rosse per il sangue fuoriuscito. E Renato se ne trova una addirittura nell'area inguinale! 

 
Le sanguisughe sono particolarmente attive durante la stagione monsonica, vale a dire da maggio a settembre/ottobre, nelle foreste dai 1200 ai 3500 metri di quota. Quando si attaccano alla pelle si può provare una sensazione di freddo molto localizzata: è un indizio della loro presenza. Non sono un rischio per la salute come possono esserlo le zecche ad esempio; più che altro sono spiacevoli a vedersi. Secernono una sostanza che funziona da anestetico per cui non si prova alcun dolore e una volta satolle del nostro sangue si staccano spontaneamente. Rimedi? Come prevenzione si può strofinare del sale o i normali repellenti su calzettoni e caviglie, luoghi di più facile accesso per loro, dato che si trovano sul terreno in particolare; ma vivono anche sulle foglie e i rami di alberi e cespugli per cui il loro attacco può avvenire in ogni parte del corpo! Se si attaccano offrono una certa resistenza per cui è necessario usare una piccola fonte di calore, una sigaretta accesa o una piccola fiamma. Sembra che in Nepal esista un repellente particolarmente efficace a base di erbe. Mi riprometto di farne uso alla prima occasione!
( da "Ho visto le montagne toccare il cielo" )
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http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=573200 

Ecco come Chris Bonington, nel suo libro “Everest parete sud-ovest”, dall'Oglio Editore 1975, presenta al lettore le sanguisughe.

La sanguisuga media è lunga circa due centimetri e mezzo, ha una ventosa alle due estremità del suo corpo tubolare e si sposta da ventosa a ventosa. Ama starsene sulle rocce aride e sui sentieri asciutti e sulle piante che pendono sopra la pista battuta. Appollaiata su una ventosa, si stende in tutta la sua lunghezza, ondeggia come un'erbaccia in una pozza limacciosa e tenta di attaccarsi alla vittima. Sembra che esistano due varietà principali di mignatta, comuni alla regione montuosa del Nepal, una nera e una bruna, spesso con una striscia gialla lungo il corpo. La bruna è la più grossa, ma entrambe moltiplicano le loro dimensioni dieci volte appena rimpinzate. La sanguisuga può scivolare attraverso i pertugi più piccoli. Può entrare facilmente in una scarpa attraverso il laccio e penetrare in parecchi indumenti di lana. Quando si sono ben infiltrate è difficilissimo scoprirle. Le più grosse possono causare un'acuta sensazione di dolore che ne rivela la presenza; ma, se non è avvertita, esse avranno certamente usato un anestetico locale per ridurre il dolore mentre estraggono il sangue. Se non viene scoperta, la mignatta può succhiare lentamente per giorni e giorni e giorni, poi scompare lasciando la vittima con la ferita aperta che sanguina. Una ferita dovuta alle sanguisughe deve essere curata come un taglio, perché nei climi umidi ogni tipo di lacerazione impiega più tempo a guarire. Se la mignatta viene scoperta proprio quando si attacca alla pelle, è piuttosto difficile strapparla via perché di solito si attaccherà con la ventosa libera alle dita. Un pizzico di sale sulla sanguisuga la costringerà a staccarsi senza lasciare una piaga sanguinante. Lo Sketofax o altro unguento analogo contro gli insetti, applicato abbondantemente, scoraggia in generale le mignatte. Il sale o l'unguento strofinato sulle scarpe o sulla pelle è quasi l'unica protezione, ma diventa presto inefficace se si attraversa dell'acqua o se si suda.”

martedì 18 gennaio 2011

Nepal ... la via segreta 1

Traversata alpinistica che collega il campo base del Makalu a 4800 m (quinto ottomila più elevato della terra), con l'alto Khumbu, nella regione dell'Everest. Secondo una antica tradizione, è una via percorsa solo dagli dei o da figure leggendarie come il re Khykharato, dalla bocca di cane e le corna di capra. Si tratta di superare lo Sherpani-la e il West Col, a oltre seimila metri di quota, e l'Amphu Lapcha, che pur essendo di poco inferiore ai primi due è certamente il più difficile e pericoloso.

19 ottobre 2007 venerdì – quattordicesimo giorno: II° Campo Alto-West Col. 
Il programma previsto oggi non sarà rispettato. Vediamo. Dopo colazione cominciamo a salire. Lo zaino personale è abbastanza pesante: comprende infatti tutta l'attrezzatura tecnica con cui affrontare e superare i due alti colli ad oltre seimila metri. Fatti i primi timidi passi in equilibrio su enormi massi, subito la sosta per indossare l'imbrago e i ramponi. Con la piccozza saldamente nelle mani mordiamo il ripidissimo ghiaccio vivo che ci porta d'un balzo a toccare il pianoro superiore. L'ambiente glaciale è illuminato dal primo sole del mattino mentre una leggera brezza contribuisce ad aumentare la sensazione di freddo che ci colpisce al viso. La neve è ottima. Sufficientemente compatta per non affondare, permette una progressione non eccessivamente faticosa. È ben assestata sui pendii sovrastanti che ci accingiamo a calpestare. Siamo nella fase terminale di avvicinamento al passo. Lo Sherpani-la. La parete est che mi si para davanti presenta una fascia di granito marcio, seguita da neve fin sulla sella.

Saranno duecento metri. Ci fermiamo nei pressi della base. Prima si arrampicano i portatori con i loro pesantissimi carichi. Aspettiamo. I nostri Sherpa hanno messo in sicurezza la via applicando le corde fisse, come si fa in questi casi. Aspetto. Quando arriva il mio turno sono l'ultimo ad assicurarmi alla corda mentre decisamente affronto la prima placca rocciosa ... Calpesto gli ultimi metri di neve. Uno ... due ... tre ... quattro ... passi ... una sosta ... riprendo ... ne conto altri quattro prima della sosta successiva ... È un ottimo metodo darsi dei piccoli traguardi di volta in volta, spezzettando e riducendo così a poco a poco lo spazio che mi separa dall'obiettivo finale.
Sulla sottile lama che segna il punto più alto dello Sherpani-la, mi trovo a condividerne l'esiguo spazio con tutti gli altri. Getto lo sguardo sull'altro versante. Mi sembra più impegnativo, forse per la prospettiva falsata che il cervello ci dà in queste situazioni. Siamo lì assiepati in attesa. L'altimetro segna 6110 metri. Gli Sherpa continuano il loro prezioso lavoro di messa in sicurezza. Una lunga interminabile discesa con calate fra salti di roccia, solidissima questa volta, e placche innevate, fino ad arrivare alla base della parete ovest. Mi ritrovo in neve fonda. Mi guardo attorno. Ci attende un grande plateau glaciale impreziosito da vette interamente ricoperte di neve. Sulla nostra destra fa bella mostra di sé il Baruntse con le sue quattro cime, ambito settemila. In pratica, i tre passi si trovano sulle tre principali creste del Baruntse. La cresta di sud est si abbassa fino a comprendere lo Sherpani-la; sulla cresta sud si trova il West Col e sulla cresta ovest abbiamo l'Amphu Lapcha. La lunghissima cresta ovest che poi arriva a congiungersi con l'Ama Dablam. Più lontano giganteggia il versante sud ovest del Makalu. Ci troviamo su di un immenso pianoro, del quale a fatica riesco a cogliere le dimensioni. Davanti a noi quattro chilometri, quattro interminabili chilometri su ghiaccio prima del West Col, leggermente più alto del precedente, a quota 6135.

Ore 14:00. Ci siamo tutti noi del gruppo: manca solo Franco e c'è anche un paio di kitchen boys, gli aiuto cucinieri, che avendo sulle spalle un carico decisamente meno pesante dei portatori, possono tenere un buon passo. Ci fanno capire che lì verrà posto il campo. Così alto non era stato di certo previsto. E comunque non è prudente pernottare alla massima quota raggiunta in giornata, mentre è sempre opportuno scendere di qualche centinaio di metri per favorire una buona acclimatazione. Mugugni. Fra l'altro, dovremo aspettare fino quasi le cinque del pomeriggio prima che arrivino tutti i portatori. A mano a mano che il sole cala sull'orizzonte, la temperatura scende sempre più lasciando spazio al gelo che si insinua sulla pelle a dispetto dei duvet che indossiamo. È già buio quando le tende sono pronte per accoglierci. Arrivano anche alcuni del gruppo degli Austriaci. Sono in pochi. Sembra abbiano dei problemi. Una di loro è scossa da grossi ed irrefrenabili brividi di freddo e chiede con insistenza ospitalità. Cosa che prontamente facciamo. Si accampano ad alcuni metri da noi. Armeggiano con il telefono satellitare, forse per chiedere aiuto. Erano già stati abbandonati dai portatori per cui Kipa aveva ritenuto opportuno prestare loro alcuni dei nostri. Anche questo aveva contribuito a creare un ritardo alla nostra spedizione.
Non ne sapremo più nulla.

Siamo giusto a ridosso della sottile cresta rocciosa che identifica il West Col, che affronteremo l'indomani ... Buio ... E con il buio la temperatura precipita. Renato ed io non prendiamo neppure l’ultima tazza di the. Sarà una notte freddissima cercare di dormire con dieci gradi sotto lo zero. Fuori la temperatura in questo periodo, ottobre avanzato, scende “tranquillamente” fino ai venti sotto lo zero! Ce l’aspettiamo. Alle tre di notte, quando dovrò uscire per un bisogno impellente, la pila frontale illumina uno scenario del tutto inusuale: l’interno della tenda è di un bianco uniforme. Tutto, ma proprio tutto, lo zaino, i pochi oggetti lasciati accanto al materassino, la piccozza, la borraccia, qualche indumento, tutto è così desolatamente bianco. Ogni cosa è ricoperta da uno spesso strato di brina, luccicanti cristalli di ghiaccio, resi vivi e vitali dalla luce della lampada. Persino il sacco piuma nel quale sono avvolto è ghiacciato al suo esterno. Con estrema fatica indosso gli scarponi irrigiditi, apro la cerniera irrigidita della tenda ed azzardo i primi passi: l’uscita nella nebbia è una ulteriore violenta sferzata di gelo. Il silenzio assoluto sembra far male … la bianca e pallida luce lunare avvolge il bianco della neve e delle cime circostanti e rende tutto uniforme. La percezione dello spazio si annulla in quella uniformità e mi vedo costretto a muovermi con passi incerti e barcollanti, quasi fossi sull'orlo di un precipizio senza fondo o brancolassi nel vuoto assoluto. Non ci sono punti di riferimento che possano venire in aiuto al mio senso dell'equilibrio così compromesso ...
 
Maddalena, quella notte, avrà un attacco di mal acuto di montagna, vomitando a più riprese ... è molto debole…
Il barometro mi dà 509 millibar.
( da "Ho visto le montagne toccare il cielo" )
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II° campo alto - 5700 m

Sherpani-la versante est - 6110 m

Sherpani-la versante ovest: una lunga calata in doppia fra salti di roccia e placche innevate.

Sul grande plateau ghiacciato ad oltre 6000 metri. Alla nostra destra spicca il Baruntse, un settemila. Quattro interminabili chilometri ci dividono dal West Col.

Nepal ... la via segreta 2

20 ottobre sabato – quindicesimo giorno: West Col-Campo Baruntse. Gli spiriti benevoli che soggiornano sulle cime delle montagne ci regalano una nuova giornata di pieno sole. Prima ancora, alle quattro del mattino, i cucinieri sono già al lavoro con i loro fornelli a kerosene. L'operazione scioglimento della neve per procurare l'acqua per tutti, il primo the della giornata ma non solo, è alquanto faticosa e richiede molto tempo. Il rumore delle piccole pompe azionate a mano per la bisogna mi rende più precario il già difficile sonno. Rimango in ascolto. Appena la temperatura sale di qualche grado, lo spesso strato di brina all'interno comincia a gocciolare. È il segnale. Siamo pronti per vivere un nuovo giorno. Kipa dà disposizioni utili a scendere il West Col: passerà prima la “cucina”, seguita dai portatori e noi per ultimi. Il tutto ha una sua razionalità sperimentata da decenni di spedizioni himalayane. Infatti cuoco e “kitchen boys” devono poter arrivare per primi al nuovo campo per predisporre subito il pasto per tutti con abbondante the bollente. 
 
Due ore se ne vanno nell'attesa. Sono un po' teso. La minuscola forcella rocciosa a pochi metri da me vede sparire dall'altro lato giù nel ghiacciaio dell'Hongku uomini e cose, in un susseguirsi di ordini ora in nepalese ora in inglese che gli Sherpa si lasciano sfuggire. Hanno attrezzato la via di discesa con corde assicurate a lunghi fittoni conficcati nella neve dura e compatta del pendio. Presenta una discreta pendenza sui 45 gradi.
Tocca a me. Con fatica mi isso sulla forcelletta e la prima cosa che faccio è misurare con lo sguardo i circa centocinquanta metri che mi separano dal ghiacciaio lì sotto. Mi aggancio alla corda e inizio la discesa. Lo sguardo cade alternativamente sulle mani impegnate a far scorrere correttamente la corda e sui ramponi che devono trovare la posizione migliore per un buona presa. La parte iniziale è molto ripida. La base del lungo canale mi viene incontro e ho l'impressione che aumenti via via la propria dimensione mentre la piccola forcella lassù si rimpicciolisce sempre più. Gli ultimi metri sono su roccette. È andata. Mi guardo attorno. Un nuovo plateau glaciale mi immette in un nuovo mondo fatto di nuovi spazi e nuove cime. E finalmente il campo. Uno spazio libero da neve. Vicinissimo ad un lago. Il campo è noto come Campo Baruntse perché l'area viene usata come punto di appoggio e partenza per la salita al settemila omonimo che riempie di sé l'orizzonte. Al riparo di un enorme masso si provvede al “pranzo”. The caldo e qualcosa di solido da mettere sotto i denti. Da qualche giorno i pasti sono piuttosto leggeri. La quota fa il resto dato che di fame in giro ce n'è ben poca. La discesa di settecento metri è stata salutare per Maddalena che ora vediamo riprendersi dopo la crisi della notte precedente.

Ore diciotto. Prima di scivolare tra le braccia di Morfeo c'è un po' di tempo da dedicare alla compilazione del mio giornale di bordo e di scambiare parole ed impressioni con Renato alla luce della pila frontale. Ancora due giorni, di cui il secondo particolarmente impegnativo. Prevede il superamento dell'Amphu Lapcha, come dire il punto chiave per portare a compimento la traversata della Via Segreta. L'esito non è affatto scontato. Saranno decisive le ottime condizioni del tempo. La discesa sull'Amphu Glacier e il lungo trasferimento fino a Chukhung ci permetteranno di entrare nella valle del Khumbu, la via d'ingresso all'Everest ... e potremo fare i turisti ...
... Nevica ... 521 millibar ... altitudine 5500 metri ...
( da "Ho visto le montagne toccare il cielo" )  
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West Col: l'area del campo a quota 6135 metri

West Col: una lama di roccia sulla quale si può stare solo a cavalcioni, prima di sparire inghiottiti
dall'altro lato giù nel ghiacciaio dell'Hongku.



West Col: la via di discesa


West Col: la via di discesa
Una perfetta linea retta ci permette di superare i circa 150 metri che separano la selletta del West Col
dal ghiacciaio che si trova alla sua base.



Il ghiacciaio dell'Hongku



Campo Baruntse - 5500 m



Nepal ... la via segreta 3

22 ottobre  lunedì – diciassettesimo giorno: Campo Amphu Lapcha- Chukhung. Sveglia alle cinque e trenta. L' Amphu Lapcha con la sua sella ancora nascosta ai nostri occhi è sempre lì a ricordarci che solo gli dei daranno il loro benevolo consenso a passare dall'altra parte. Il punto sulla cresta che ci darà il via libera per scendere nel Khumbu non è visibile da qui. I trecento metri che ci separano dalla vetta sono nella prima parte rocciosi per lasciare il posto poi a masse di ghiaccio informi e schiacciate le une sulle altre in precaria posizione. Sono i seracchi e andranno superati. Il nostro lasciapassare.
Sono un po' teso anche perché durante la notte, freddissima come al solito da qualche tempo a questa parte, sono dovuto uscire, testimone un cielo stellato, causa ... non meglio identificati disturbi gastro intestinali ... un eufemismo ... ad indicare un problema, o meglio un fastidio poco gradito in queste circostanze ... e ancora prima della partenza ... subito dopo colazione. Pensiero ... martellante ... e se mi capita lassù ... che faccio? Meglio non fasciarsi la testa prima del tempo!

I primi sfasciumi e i primi brevi tratti di facile arrampicata interrompono il mio divagare. Ora è la fatica a subentrare e l'impegno più importante è di riuscire a dosare lo sforzo in vista della lunga giornata che ci attende. Ancora non lo sappiamo ma saranno necessarie dieci ore prima di poter allungare le gambe seduti ad un tavolo. Davanti a me un portatore seminascosto dal suo immane carico cerca di superare un passaggio che richiede forza ed equilibrio. Lo vedo allungare le dita della mano sinistra e poi quelle della mano destra su un appiglio sopra la sua testa. Le dita sembrano voler artigliare la roccia. Riprova. Non ce la fa ad issarsi oltre l'ostacolo. Lo guardo. aspetto. Si gira e mi fa cenno di passare. Poi, forse più tranquillo, risolve in qualche modo il suo problema e me lo rivedo accanto. Bravissimo! 
 
Ghiaccio ... imbrago, corda, ramponi e piccozza si rendono indispensabili per la progressione. La parete si raddrizza all'improvviso presentandosi con una serie di seracchi perfettamente verticali, intervallati da piccoli spazi aerei dove la neve ha potuto accumularsi, in caotica successione ... Un' immagine da girone dantesco.
Il primo risalto è stato attrezzato dagli Sherpa. Mi lego alla corda che penzola dall'alto. Le due punte anteriori dei ramponi svolgono egregiamente il loro lavoro sul ghiaccio vivo permettendomi di salire in sicurezza. Continuo per pendii ghiacciati alquanto sostenuti. Anche questi attrezzati con corde fisse. Se abbasso il capo, vedo i portatori rimasti sotto il primo risalto aspettare il loro turno. Questa volta Kipa ha preferito invertire l'ordine di progressione facendoli muovere per ultimi nella parte più difficile e pericolosa della traversata. Sono loro che si stanno allontanando da me diventando sempre più piccoli fino a sembrare delle piccole macchie scure su una superficie immacolata. Il fiato si fa corto. La ricompensa è uno stupendo ambiente candido e incontaminato: dedalo di seracchi, meringhe, canalini, stalattiti di ghiaccio, fino alla cima che appare all'improvviso quando sopra di noi vi è solo il cielo azzurro. Per tutti i trecentosessanta gradi attorno un susseguirsi di montagne. Solo montagne. La colossale parete sud del Nuptse-Lhotse si eleva per circa quattro chilometri in altezza e per ben otto chilometri in lunghezza, lì davanti a noi, sopra la sua solida base di ghiaccio. Una bastionata possente fatta di scuro granito, che solo a guardarla incute timore. E dietro, più in alto, svetta la cuspide sommitale del più alto ottomila della terra. I Nepalesi lo chiamano Sagarmatha, “Dea Madre del Mondo”. Per i Tibetani è il Chomolungma, “L'Altissima Dea”. Per noi occidentali l'Everest, dal nome del Colonnello George Everest, il fondatore dell'Ufficio trigonometrico e geodetico della allora colonia britannica. Per tutti l'archetipo, la forma assoluta, che George Mallory ed Andrew Irvine osarono violare nel 1924 nel loro tentativo di raggiungerne la cima. Allora gli dei furono spietati. Concedettero loro di arrivare fino a 8450 metri dove furono visti per l'ultima volta prima di sparire inghiottiti dalle nuvole. Per essere consegnati per sempre alla Leggenda. Ed era stato ancora Mallory che in una delle numerose conferenze da lui tenute sull'argomento, ad uno che gli aveva chiesto perché quell'insistenza in quella inutile pazzia, egli aveva risposto con le famose parole: “Because it is there!”. “Perché è là!”

Ora lo sguardo scivola lungo la parete nord dell'Amphu Lapcha, giù fino ad incontrare la lingua di ghiaccio che ne lambisce la parte inferiore. È il versante lungo il quale dovremo scendere. Un abisso! Il vuoto ti inghiotte mentre cerchi di renderti conto dei cinquecento metri che separano la cresta dalla base. La tensione che si era sciolta in quel tripudio di cime scintillanti al sole si riaccende in tutta la sua violenza. Tensione che aumenta con il passare dei minuti perché ci vediamo costretti, una decina di metri immediatamente sotto la cresta e in posizione precaria, ad attendere il via libera da parte di una spedizione francese partita prima di noi e che ora sembra avere delle difficoltà nell'approntare le calate per la discesa.

Siamo stretti attorno ad un cairn, noi lo chiameremmo un ometto, uno di quei cumuli di sassi messi l'uno sull'altro a formare una specie di piramide. Sono utilissimi in montagna perché funzionano da indicatori, da segnavia. Sono sempre visibili, anche nella stagione invernale, quando la neve ricopre ogni cosa. E quando pensi di esserti perduto, la sua sola presenza funziona come un invisibile filo di Arianna che ti sussurra: “Non ti preoccupare. Vedi, sono qua io. Sei sulla giusta strada” ... e ti senti subito risollevato nello spirito. Ma questo cairn è speciale. Non solo si trova ad una quota di 5800 metri ma è tutto agghindato a festa con bandierine buddhiste di preghiera, come è consuetudine da queste parti sugli alti passi himalayani. Nella lingua locale si chiamano tar chok. Si susseguono lungo la sottile cresta nei colori rosso, giallo, verde, blu e bianco. Rappresentano gli elementi primordiali. Il Fuoco. La Terra. L'Acqua. Il Cielo. Lo Spazio. Portano stampate delle formule religiose, preghiere che il vento sa leggere e poi disperde nell'universo. Non solo il vento contribuisce a questa diffusione sacrale. Anche il sole che stinge gli inchiostri e i colori e la pioggia che dilava i tessuti di cui sono fatte disseminano l'aria di positività e di buone parole. Le cime sono sacre. Sono la dimora degli Dei che vegliano con la loro benevolenza sulle umane vicissitudini.

... A tratti raffiche di vento ... seguo con lo sguardo le corde nel loro tratto iniziale. Le vedo inghiottire nel vuoto della parete. Si è fatto già mezzogiorno. Due ore di attesa. Mi viene da pensare ai portatori bloccati anche loro. Non sono certo equipaggiati come noi. La temperatura sta scendendo.
Sollievo! ... I Francesi sono tutti scesi ... Tocca a noi ... Il cuore accelera i suoi battiti ... Cerco di controllare la respirazione ... Kipa e le altre guide hanno fatto un buon lavoro ... Sono dislocati nei punti più difficili ... Vedo sparire sotto di me Alessandra ... e Paola ... e Piera ... e Fulvio ... Tocca a me ... I primi metri su ghiaccio mi portano ad una breve e stretta cengia innevata. Subito dopo una costola rocciosa mi impedisce di andare oltre con lo sguardo. Un grande salto nel vuoto è ciò che mi aspetta. Non è possibile farsi un'idea delle prime placche di granito che da lì si intuiscono.
... Kipa mi dà le ultime indicazioni ... poche parole ... mi butto ... la calata sembra non finire ... le mani sulla corda mentre guido la discesa poggiando entrambi i piedi sulla roccia e cercando nel contempo di mantenere una posizione del corpo il più possibile in equilibrio onde evitare pericolosi sbandamenti. Una volta superata la fascia rocciosa mi ritrovo in neve profonda. Passo alla calata successiva ... SOSPIRO ... è fatta. La parte più delicata è ormai sopra di me. Non resta che aiutarmi con la piccozza per affrontare i ripidi pendii innevati che ancora mi separano dalla base della severa parete nord. Ora è del tutto in ombra ... e mi appare terribilmente repulsiva …

Chukhung appare all'improvviso un centinaio di metri sulla verticale sotto di noi. Da alcune ore stiamo seguendo l'interminabile esiguo filo di uno dei tanti depositi morenici che si dipartono dai ghiacciai del Lhotse e del Lhotse Shar. L'ambiente è sempre fantastico. Le nubi giocano con l' immane parete sud del Nuptse-Lhotse. O forse è la parete stessa che si diverte a cavalcare i bianchi batuffoli di ovatta che gli ultimi raggi del sole morente colorano di rosso. L'Imja Tso, un tipico lago di origine glaciale si fa notare per uno splendido iceberg galleggiante sulla sua superficie tranquilla. E l'Imja Khola ci accompagna per un buon tratto con le sue acque tumultuose mentre cerca la sua via tra i massi per scendere a valle. La prima vegetazione. Confesso che dopo tanti giorni di bianco assoluto il verde che timidamente ricopre piccole affioranti superfici di terra è il benvenuto.

Chukhung è un pugno di case a 4850 metri, una modesta isola abitata solo nella buona stagione. Dall'alto bisogna faticare non poco per distinguere le baite dai muri a secco che delimitano piccoli cortili. Sono le ore diciotto. Alcune voci che giungono da qualche parte nel buio mi aiutano a trovare il lodge. Sono passate dieci ore da quando abbiamo lasciato il campo sotto l'Amphu Lapcha. Non ho toccato cibo da allora. Il cestino che ci era stato consegnato alla partenza è ancora intatto nello zaino. Un uovo sodo, alcuni biscotti, un frutto e chapati. Tensione, concentrazione e stanchezza mi hanno impedito di consumare quel frugale pasto. Il nostro cuoco questa volta non ha potuto fare di più e di meglio. E neppure ho bevuto. Digiuno totale. Ed è con grande piacere che mi affretto ad ordinare del the caldo. Una. Due. Tre tazze. Scendono in rapida successione ad alleviare una lunga sete. Solo se hai conosciuto le privazioni sei in grado di apprezzare le piccole cose semplici della vita. Lo sfinimento lentamente viene riassorbito e ritornano le forze. È il momento di guardarsi un po' attorno e prendere conoscenza di ciò che mi circonda ... Siamo gli unici Italiani della serata.

I portatori arrivano molto tardi. Si accamperanno nel cortile all'interno del “Chukhung Resort & Restaurant”. Noi troviamo posto in una stanza adiacente alla sala da pranzo dormendo sui nostri materassini sul pavimento. Non vi sono letti disponibili. Tutto esaurito. Ma dopo sedici giorni e notti in tenda ... con temperature sotto lo zero ... nessuna comodità ... insomma ... è un sottile piacere ... 
( da "Ho visto le montagne toccare il cielo" )
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Sotto il primo salto di ghiaccio

In arrampicata

Si sale per pendii ghiacciati alquanto sostenuti


La cresta dell'Amphu Lapcha con le bandierine di preghiera
Prima calata lungo la parete nord

La parete nord dell 'Amphu Lapcha con la via di discesa