22 ottobre lunedì – diciassettesimo giorno: Campo Amphu Lapcha- Chukhung. Sveglia alle cinque e trenta. L' Amphu Lapcha con la sua sella ancora nascosta ai nostri occhi è sempre lì a ricordarci che solo gli dei daranno il loro benevolo consenso a passare dall'altra parte. Il punto sulla cresta che ci darà il via libera per scendere nel Khumbu non è visibile da qui. I trecento metri che ci separano dalla vetta sono nella prima parte rocciosi per lasciare il posto poi a masse di ghiaccio informi e schiacciate le une sulle altre in precaria posizione. Sono i seracchi e andranno superati. Il nostro lasciapassare.
Sono un po' teso anche perché durante la notte, freddissima come al solito da qualche tempo a questa parte, sono dovuto uscire, testimone un cielo stellato, causa ... non meglio identificati disturbi gastro intestinali ... un eufemismo ... ad indicare un problema, o meglio un fastidio poco gradito in queste circostanze ... e ancora prima della partenza ... subito dopo colazione. Pensiero ... martellante ... e se mi capita lassù ... che faccio? Meglio non fasciarsi la testa prima del tempo!
I primi sfasciumi e i primi brevi tratti di facile arrampicata interrompono il mio divagare. Ora è la fatica a subentrare e l'impegno più importante è di riuscire a dosare lo sforzo in vista della lunga giornata che ci attende. Ancora non lo sappiamo ma saranno necessarie dieci ore prima di poter allungare le gambe seduti ad un tavolo. Davanti a me un portatore seminascosto dal suo immane carico cerca di superare un passaggio che richiede forza ed equilibrio. Lo vedo allungare le dita della mano sinistra e poi quelle della mano destra su un appiglio sopra la sua testa. Le dita sembrano voler artigliare la roccia. Riprova. Non ce la fa ad issarsi oltre l'ostacolo. Lo guardo. aspetto. Si gira e mi fa cenno di passare. Poi, forse più tranquillo, risolve in qualche modo il suo problema e me lo rivedo accanto. Bravissimo!
Ghiaccio ... imbrago, corda, ramponi e piccozza si rendono indispensabili per la progressione. La parete si raddrizza all'improvviso presentandosi con una serie di seracchi perfettamente verticali, intervallati da piccoli spazi aerei dove la neve ha potuto accumularsi, in caotica successione ... Un' immagine da girone dantesco.
Il primo risalto è stato attrezzato dagli Sherpa. Mi lego alla corda che penzola dall'alto. Le due punte anteriori dei ramponi svolgono egregiamente il loro lavoro sul ghiaccio vivo permettendomi di salire in sicurezza. Continuo per pendii ghiacciati alquanto sostenuti. Anche questi attrezzati con corde fisse. Se abbasso il capo, vedo i portatori rimasti sotto il primo risalto aspettare il loro turno. Questa volta Kipa ha preferito invertire l'ordine di progressione facendoli muovere per ultimi nella parte più difficile e pericolosa della traversata. Sono loro che si stanno allontanando da me diventando sempre più piccoli fino a sembrare delle piccole macchie scure su una superficie immacolata. Il fiato si fa corto. La ricompensa è uno stupendo ambiente candido e incontaminato: dedalo di seracchi, meringhe, canalini, stalattiti di ghiaccio, fino alla cima che appare all'improvviso quando sopra di noi vi è solo il cielo azzurro. Per tutti i trecentosessanta gradi attorno un susseguirsi di montagne. Solo montagne. La colossale parete sud del Nuptse-Lhotse si eleva per circa quattro chilometri in altezza e per ben otto chilometri in lunghezza, lì davanti a noi, sopra la sua solida base di ghiaccio. Una bastionata possente fatta di scuro granito, che solo a guardarla incute timore. E dietro, più in alto, svetta la cuspide sommitale del più alto ottomila della terra. I Nepalesi lo chiamano Sagarmatha, “Dea Madre del Mondo”. Per i Tibetani è il Chomolungma, “L'Altissima Dea”. Per noi occidentali l'Everest, dal nome del Colonnello George Everest, il fondatore dell'Ufficio trigonometrico e geodetico della allora colonia britannica. Per tutti l'archetipo, la forma assoluta, che George Mallory ed Andrew Irvine osarono violare nel 1924 nel loro tentativo di raggiungerne la cima. Allora gli dei furono spietati. Concedettero loro di arrivare fino a 8450 metri dove furono visti per l'ultima volta prima di sparire inghiottiti dalle nuvole. Per essere consegnati per sempre alla Leggenda. Ed era stato ancora Mallory che in una delle numerose conferenze da lui tenute sull'argomento, ad uno che gli aveva chiesto perché quell'insistenza in quella inutile pazzia, egli aveva risposto con le famose parole: “Because it is there!”. “Perché è là!”
Ora lo sguardo scivola lungo la parete nord dell'Amphu Lapcha, giù fino ad incontrare la lingua di ghiaccio che ne lambisce la parte inferiore. È il versante lungo il quale dovremo scendere. Un abisso! Il vuoto ti inghiotte mentre cerchi di renderti conto dei cinquecento metri che separano la cresta dalla base. La tensione che si era sciolta in quel tripudio di cime scintillanti al sole si riaccende in tutta la sua violenza. Tensione che aumenta con il passare dei minuti perché ci vediamo costretti, una decina di metri immediatamente sotto la cresta e in posizione precaria, ad attendere il via libera da parte di una spedizione francese partita prima di noi e che ora sembra avere delle difficoltà nell'approntare le calate per la discesa.
Siamo stretti attorno ad un cairn, noi lo chiameremmo un ometto, uno di quei cumuli di sassi messi l'uno sull'altro a formare una specie di piramide. Sono utilissimi in montagna perché funzionano da indicatori, da segnavia. Sono sempre visibili, anche nella stagione invernale, quando la neve ricopre ogni cosa. E quando pensi di esserti perduto, la sua sola presenza funziona come un invisibile filo di Arianna che ti sussurra: “Non ti preoccupare. Vedi, sono qua io. Sei sulla giusta strada” ... e ti senti subito risollevato nello spirito. Ma questo cairn è speciale. Non solo si trova ad una quota di 5800 metri ma è tutto agghindato a festa con bandierine buddhiste di preghiera, come è consuetudine da queste parti sugli alti passi himalayani. Nella lingua locale si chiamano tar chok. Si susseguono lungo la sottile cresta nei colori rosso, giallo, verde, blu e bianco. Rappresentano gli elementi primordiali. Il Fuoco. La Terra. L'Acqua. Il Cielo. Lo Spazio. Portano stampate delle formule religiose, preghiere che il vento sa leggere e poi disperde nell'universo. Non solo il vento contribuisce a questa diffusione sacrale. Anche il sole che stinge gli inchiostri e i colori e la pioggia che dilava i tessuti di cui sono fatte disseminano l'aria di positività e di buone parole. Le cime sono sacre. Sono la dimora degli Dei che vegliano con la loro benevolenza sulle umane vicissitudini.
... A tratti raffiche di vento ... seguo con lo sguardo le corde nel loro tratto iniziale. Le vedo inghiottire nel vuoto della parete. Si è fatto già mezzogiorno. Due ore di attesa. Mi viene da pensare ai portatori bloccati anche loro. Non sono certo equipaggiati come noi. La temperatura sta scendendo.
Sollievo! ... I Francesi sono tutti scesi ... Tocca a noi ... Il cuore accelera i suoi battiti ... Cerco di controllare la respirazione ... Kipa e le altre guide hanno fatto un buon lavoro ... Sono dislocati nei punti più difficili ... Vedo sparire sotto di me Alessandra ... e Paola ... e Piera ... e Fulvio ... Tocca a me ... I primi metri su ghiaccio mi portano ad una breve e stretta cengia innevata. Subito dopo una costola rocciosa mi impedisce di andare oltre con lo sguardo. Un grande salto nel vuoto è ciò che mi aspetta. Non è possibile farsi un'idea delle prime placche di granito che da lì si intuiscono.
... Kipa mi dà le ultime indicazioni ... poche parole ... mi butto ... la calata sembra non finire ... le mani sulla corda mentre guido la discesa poggiando entrambi i piedi sulla roccia e cercando nel contempo di mantenere una posizione del corpo il più possibile in equilibrio onde evitare pericolosi sbandamenti. Una volta superata la fascia rocciosa mi ritrovo in neve profonda. Passo alla calata successiva ... SOSPIRO ... è fatta. La parte più delicata è ormai sopra di me. Non resta che aiutarmi con la piccozza per affrontare i ripidi pendii innevati che ancora mi separano dalla base della severa parete nord. Ora è del tutto in ombra ... e mi appare terribilmente repulsiva …
Chukhung appare all'improvviso un centinaio di metri sulla verticale sotto di noi. Da alcune ore stiamo seguendo l'interminabile esiguo filo di uno dei tanti depositi morenici che si dipartono dai ghiacciai del Lhotse e del Lhotse Shar. L'ambiente è sempre fantastico. Le nubi giocano con l' immane parete sud del Nuptse-Lhotse. O forse è la parete stessa che si diverte a cavalcare i bianchi batuffoli di ovatta che gli ultimi raggi del sole morente colorano di rosso. L'Imja Tso, un tipico lago di origine glaciale si fa notare per uno splendido iceberg galleggiante sulla sua superficie tranquilla. E l'Imja Khola ci accompagna per un buon tratto con le sue acque tumultuose mentre cerca la sua via tra i massi per scendere a valle. La prima vegetazione. Confesso che dopo tanti giorni di bianco assoluto il verde che timidamente ricopre piccole affioranti superfici di terra è il benvenuto.
Chukhung è un pugno di case a 4850 metri, una modesta isola abitata solo nella buona stagione. Dall'alto bisogna faticare non poco per distinguere le baite dai muri a secco che delimitano piccoli cortili. Sono le ore diciotto. Alcune voci che giungono da qualche parte nel buio mi aiutano a trovare il lodge. Sono passate dieci ore da quando abbiamo lasciato il campo sotto l'Amphu Lapcha. Non ho toccato cibo da allora. Il cestino che ci era stato consegnato alla partenza è ancora intatto nello zaino. Un uovo sodo, alcuni biscotti, un frutto e chapati. Tensione, concentrazione e stanchezza mi hanno impedito di consumare quel frugale pasto. Il nostro cuoco questa volta non ha potuto fare di più e di meglio. E neppure ho bevuto. Digiuno totale. Ed è con grande piacere che mi affretto ad ordinare del the caldo. Una. Due. Tre tazze. Scendono in rapida successione ad alleviare una lunga sete. Solo se hai conosciuto le privazioni sei in grado di apprezzare le piccole cose semplici della vita. Lo sfinimento lentamente viene riassorbito e ritornano le forze. È il momento di guardarsi un po' attorno e prendere conoscenza di ciò che mi circonda ... Siamo gli unici Italiani della serata.
I portatori arrivano molto tardi. Si accamperanno nel cortile all'interno del “Chukhung Resort & Restaurant”. Noi troviamo posto in una stanza adiacente alla sala da pranzo dormendo sui nostri materassini sul pavimento. Non vi sono letti disponibili. Tutto esaurito. Ma dopo sedici giorni e notti in tenda ... con temperature sotto lo zero ... nessuna comodità ... insomma ... è un sottile piacere ...
( da "Ho visto le montagne toccare il cielo" )
Leggi le prime pagine
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Sotto il primo salto di ghiaccio |
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In arrampicata |
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Si sale per pendii ghiacciati alquanto sostenuti |
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La cresta dell'Amphu Lapcha con le bandierine di preghiera |
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Prima calata lungo la parete nord |
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La parete nord dell 'Amphu Lapcha con la via di discesa |